
Come detto in un altro post, la pace che ne seguì tra Dionisio I di Siracusa e i Cartaginesi (405-404 a.C.) sancì, a favore di quest’ultimi, il dominio sulla Sicilia occidentale (insediamenti punici, elimi e sicani), nonché il diritto della popolazione di Selinunte, Akragas, Himera, Gela e Camarina di far ritorno nelle proprie città senza, tuttavia, potervi ricostruire le mura e sotto il pagamento di un tributo a Cartagine
Dioniso I, dopo avere salvato Siracusa dall’assedio cartaginese, tentò più volte di ribaltare il rapporto di forza con i punici, senza riuscirci. Dopo la sconfitta del Cronio, fu costretto a firmare un un trattato di pace che sanciva il dominio punico fino al fiume Alico (oggi Platani). Dionisio pagò un’indennità di 1000 talenti e dovette cedere Terme, presso Imera e il territorio di Akragas ad ovest del fiume Alico.
Anche l’ultimo suo tentativo, culminato nell’assedio e nella sconfitta di Lilibeo, fu fallimentare: così il figlio Dioniso II, da una parte resosi conto che i cartaginesi di fatto, volevano solo difendere l’epicrazia e i loro commerci, piuttosto che imporre i loro dominio, pure labile, ai greci, dall’altra preoccupato dall’opposizione interne della fazione popolare a Siracusa, che voleva defenestrarlo, mise da parte tutte le velleità di rivincita e accettò lo status quo con i punici.
Le cose cambiarono con Timoleonte, personaggio da romanzo, di cui parlerò diffusamente in un altro posto: corinzio, aveva sventato un colpo di stato nella sua polis del fratello Timofane, uccidendolo a tradimento.
I suoi concittadini, però, poco si fidavano delle sue buone intenzioni, dato che Timoleonte era a capo del movimento pro riforma agraria, diventando una sorta di convitato di pietra della politica locale. Così, alla prima occasione utile, i corinzi se ne le liberarono, spedendolo in Sicilia, dove era successo di tutto e di più.
Dioniso II, che era una sorta di dittatore del libero stato di Bananas, era stato cacciato a pedate da Siracusa dallo zio Diocle e si rifugiato a Locri, dove aveva preso il potere, per essere a sua volta defenestrato: più testardo di un mulo, invece di starsene tranquillo, aveva riconquistato con le armi la patria d’origine, provocando però la dissoluzione del dominio paterno. In ogni polis siciliana, ognuno che potesse permettersi di pagare una torma di mercenari, si autoproclamava tiranno.
Per cui, i siracusani, stanchi di questo caos, chiesero aiuto a Corinto, che mandò un corpo di spedizione, guidato proprio da Timoleonte, che divenne una sorta di castigamatti, cacciando tiranni e tirannelli e imponendo una sorta di democrazia moderata alle varie polis siciliane.
Ovviamente, i vari capetti locali, non erano molto d’accordo: per cui, non solo si organizzarono in una lega, ma chiesero aiuto a Cartagine, la quale, preferendo avere a che fare con tanti staterelli in lite tra loro, che non avrebbero messo in discussione il suo dominio, piuttosto che con un forte stato locale con ambizioni egemoni, intervenne al loro fianco, mettendo sotto assedio Siracusa.
Cosa successe poi, è assai poco chiaro, data l’ambiguità delle fonti: probabilmente, Cartagine in cambio dell’assicurazione di Timoleonte a non danneggiare i suoi interessi, accettò la riorganizzazione della Sicilia greca e la nuova cacciata di Dioniso II e degli altri tiranni. Consolidato il suo potere, Timoleonte cercò di rilanciare economicamente la Sicilia greca, prostrata da decenni di guerre.
Per prima cosa, rilanciò l’immigrazione della madrepatria, favorita anche dal caos scatenato dalla politica espansionistica di Filippo II di Macedonia: i nuovi arrivati, però, dovevano essere aiutati nell’avviare le loro attività imprenditoriali. Per cui Timoleonte provvide a una capillare opera di redistribuzione della chora, con la vendita a condizioni agevolate di immobili demaniali e con sussidi ai meno abbienti, che favorirono anche i contadini poveri sicilioti. Al contempo, il corinzio si dedicò a una politica, che oggi definiremmo keynesiana, di investimenti nella costruzione di opere pubbliche, finanziata con la coniazione di una nuova moneta d’argento, il pegaso.
Tra le varie conseguenze, vi fu un incremento della popolazione di Akragas, cosa che però portò un peggioramento dei rapporti con Cartaginese, che la interpretò come una violazione della sua sfera di influenza: i rapporti furono ulteriormente peggiorati dalla simmachia, l’alleanza che Timoleonte, con le buone o con le cattive, aveva imposto alle altre polis siciliane, caratterizzata dalla garanzia della libertà dei contraenti, ma anche dalla condivisione della politica estera siracusana.
L’obiettivo di tale alleanza era interno, ossia isolare i tiranni greci che si opponevano alla normalizzazione corinzia: Cartagine, però, la interpretò come potenziale minaccia all’epicrazia. Timoleonte, consapevole come la guerra fosse inevitabile e visti i risultati disastrosi dei precedenti scontri con i punici, si decise per un attacco preventivo.
Nell’estate del 342 a.C., Timoleonte, dopo avere eliminato un paio di tiranni locali, attaccò la sfera d’influenza punica, occupando Entella: questo provocò una crisi istituzionale a Cartagine, dove l’ambizioso Annone tentò il colpo di stato. Dinanzi a questi eventi, i punici decisero di chiudere definitivamente la questione corinzia, arruolando un esercito di oltre 70.000 uomini, reclutati in Libia, Penisola iberica, Gallia e Liguria, tra cui circa 10.000 cavalieri e 2500 componenti il «Battaglione Sacro», composto solo da nobili. Posta al comando di Amilcare e Asdrubale e appoggiata da 200 navi da guerra, l’armata cartaginese fu trasportata in Sicilia da una flotta, che sbarcò le truppe nei pressi di Lilibeo, verso la fine di maggio del 341.
Nel giugno del 341 a.C., Timoleonte, comandante dell’esercito siracusano, si trovava a otto giorni di cammino da Siracusa e devastava le campagne delle città filo-puniche. Al suo contingente si era unito quello dei suoi ufficiali Demareto e Dinarco, contingente costituito da soldati delle città strappate dai due ufficiali al dominio punico, al comando di circa 12.000 uomini, di cui 1.500 cavalieri.
‘esercito cartaginese, appena sbarcato ebbe notizie dell’incursione di Timoleonte e decise di attaccarlo immediatamente, e mentre stava lasciando le zone dell’incursione si mise in marcia verso i Siracusani e li raggiunse, il 9 giugno in prossimità del fiume Crìmiso (o Crimìsso). Nel frattempo Timoleonte aveva raccolto un esercito di circa 13.000 uomini, composto da 3.000 Siracusani, qualche migliaio di mercenari ed alcuni gruppi di volontari, tra cui Siculi e Sicani raccolti in fretta, tra cui circa 1500 cavalieri, e con coraggio si mise in marcia, in territorio nemico, contro i Cartaginesi. Durante la marcia alcune truppe mercenarie si ribellarono, e Timoleonte fu costretto a congedare un migliaio di mercenari
uando l’esercito siracusano, protetto dalla foschia, arrivò al Crimiso, nei pressi di Segesta, sorprese i Cartaginesi all’attraversamento del fiume, in un terreno paludoso che non permetteva di muoversi liberamente: particolarmente svantaggiato dalla morfologia del terreno fu il Battaglione Sacro, reso lento dalle ingombranti armature e dal pesante armamento.
Timoleonte affidò a Demareto la cavalleria ordinandogli di aggirare le quadrighe nemiche e di attaccare sui fianchi l’esercito che si stava ancora schierando.
Guidò quindi personalmente i suoi opliti all’attacco al centro dello schieramento cartaginese disponendo i sicelioti ai lati: iniziato lo scontro corpo a corpo, un improvviso e violento temporale fece aumentare il livello dell’acqua e trasformò l’area in una vera palude. Per le truppe scelte puniche, impantanate e poste più in basso rispetto ai nemici, fu un disastro: la prima fila di quattrocento uomini fu sgominata dall’impeto dei Siracusani avvantaggiati anche dalla direzione della pioggia mista a grandine. Gli altri combattenti, in gran parte mercenari, sgomenti nel vedere le truppe d’élite in grande difficoltà, cedettero a loro volta e finirono per ostacolarsi a vicenda nel tentativo di fuga.
Ufficialmente, questa fu spacciata come grande vittoria greca: in realtà, la questione fu assai meno definitiva. I punici combatterono per un altro paio d’anni e Timoleonte fu costretto a una pace di compromesso, che portò al riconoscimento da parte greca che la provincia cartaginese arrivasse al fiume Alico, confermando tutti i vecchi trattati con Dioniso, mentre i Cartaginesi riconobbero l’indipendenza di tutte le città greche ad oriente di quel fiume. I Cartaginesi inoltre si impegnarono ad astenersi da qualsiasi alleanza con eventuali tiranni della zona greca ed infine ogni cittadino greco della provincia cartaginese, se lo avesse desiderato, era libero di trasferirsi a Siracusa.
Trattato che portò un poco di pace ad Agrigento, tanto che tornò ad essere attiva e vitale, permettendosi di ricostruire le mura abbattute, pur accettando di essere neutrale nelle dispute tra greci e punici.
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