Pani c’a meusa

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Cosa è il gusto acquisito ? Secondo i sociologi e gli antropologi, con questo termine si intende un alimento o una bevanda che è improbabile possa essere apprezzata da una persona che non abbia avuto con esso un’esposizione sostanziale e durevole negli anni. E questo a causa di numerosi fattori, tra cui l’aspetto, gli odori, il sapore, l’origine, e così via: tutti elementi che, per varie ragioni, sono considerati “tabù” da altre culture. Rovesciando la definizione, si potrebbe dire che “gusti acquisiti” siano tutti quei cibi che troviamo “normali” solo perché ci siamo abituati a mangiarli – e, alla lunga, perfino ad apprezzarli – fin da bambini.

Uno gusto acquisito, per noi romani, sono le frattaglie: in altre parti d’Italia e d’Europa viene visto con molta perplessità il nostro amore per la coratella, per la pagliata, la trippa e la coda alla vaccinara. Ad esempio, una volta, un tizio fiorentino che conoscevo, assai fighetto e pieno di sè, in una cena di lavoro da Checco er Carrettiere a Trastevere, ebbe praticamente un attacco di panico davanti a un piatto di succulenta coda alla vaccinara.

Era un cencio e continuava a ripetere

“Oddio non ce la faccio. Ma che schifo. Come fate a mangiarla, con tutti quei nervetti”.

mentre i romani presenti se la godevano con sommo gusto e piacere. Non lo condanno assolutamente, anzi. Di certo, sarei andato anche io in tilt dinanzi all’hakarl, lo squalo marcio islandese o il suri peruviano, la larva di un coleottero che vive nelle palme. L’uovo centenario, no, perché l’ho mangiato all’Esquilino, anche se, a dire il vero, non è che mi faccia impazzire.

Il tutto per dire che l’abitudine romana ad avere a che fare con le frattaglie, ci facilita quando ci confrontiamo con piatti simili, come il lampredotto fiorentino, che mangio con sommo gusto, o il palermitano pani c’a meusa.

Per chi non lo conoscesse, questo piatto di street food, consiste in un panino morbido (vastella), superiormente spolverato di sesamo, che viene imbottito con pezzetti di milza, polmone e, talvolta, trachea (scannaruzzatu in dialetto) di vitello. Questi vengono prima bolliti interi e, una volta cotti, tagliati a fettine sottili e soffritti a lungo nella sugna (lo strutto). Il panino può essere integrato con caciocavallo grattugiato o ricotta (in questo caso si dice maritatu, ossia sposato, accompagnato da qualcos’altro), con limone o pepe oppure semplice (schettu, ossia senza nient’altro).

Può sembrare strano, ma il pani c’a meusa, a differenza di tanti piatti tradizionali di Balarm, non è di origine araba, ma ebraica. I loro macellai, che operavano tra San Cataldo e la zona dove sorgerà Palazzo Sant’Elia, non potendo percepire denaro per il proprio lavoro, a causa della loro fede religiosa, trattenevano come ricompensa le interiora del vitello: budella, polmone, milza e cuore. Tra queste frattaglie non c’era il fegato, perché aveva un valore economico maggiore e veniva venduto separatamente.

Per cui, i nostri eroi si posero il problema di cosa fare con le frattaglie: un giorno si accorsero che i cristiani, erano soliti mangiare le interiora degli animali, accompagnandoli con formaggio o ricotta, ispirati da questa usanza, idearono questo panino. Dopo che Ferdinando d’Aragona e Isabella la Cattolica ebbero la demenziale idea di cacciare tutti gli ebrei dai loro domini, l’usanza rimase, grazie ai mevusari, gli ambulanti cristiani che cominciarono, nei vari mercati di Palermo, a preparare tale pietanza.

Caratteristico è il loro armamentario, costituito da una pentola inclinata, con strutto bollente nella parte bassa, mentre in alto attendono le fettine di interiora e unaa forchetta a due denti serve per estrarre le fettine fritte dal grasso di cottura e infilarle nel panino. Dopo tutte queste chiacchiere, dopo possiamo assaggiarlo a Palermo ? Alcuno nomi sono ricorrenti, come l’Antica Focacceria San Francesco, sempre se abbiate la pazienza di subirvi tutta la fila, a via Alessandro Paternostro 58, da Ninu ‘u ballerinu, a in Corso Finocchiaro Aprile 76/78, poco distante dal Tribunale di Palermo, che riesce veramente, l’ho visto con i miei occhi, a preparare un ottimo panino in meno di 10 secondi e il leggendario Nni Francu ‘U Vastiddaru, in in Corso Vittorio Emanuele 102.

Per chi vuole conoscere un pezzo di storia palermitana, consiglio una visita alla bancarella di Rocky Basile, che si sposta tra il mercato della Vucciria e Corso Vittorio Emanuele. Il nonno di Rocky durante un viaggio in Cina, rimase colpito dalla bellezza della città di Shanghai tanto che, al suo ritorno apri’ la Trattoria Shanghai dove era solito mangiare il pittore Renato Guttuso, e proprio in uno di quegli incontri, la famiglia Basile racconta di aver chiesto al pittore di poter fare qualcosa per la Vucciria e così prese spunto per dipingere quello che ancora oggi è uno dei più grandi capolavori di pittura ,il quadro La Vucciria. Rocky, per chi come il sottoscritto ama la televisione spazzatura, è stato protagonista di una puntata del noto programma “Unti e Bisunti” di Chef Rubio dove i due si sfidarono a suon di panini, gara che terminò’ con un pareggio.

Altro luogo consigliabile è Dal 1943 Pani ca meusa Porta Carbone, in Via Cala 62, proprio di fronte al Porto di Palermo, friggitoria che gode della fama di preparare il pani c’a meusa più farcito della città e in cui, oltre alla classica mafalda, il panino intrecciato con semi di sesamo, si può scegliere anche la foccaccia o un generico pane. In ogni caso, Porta Carbone merita una visita per la visto delle barche e del mare.

E dopo una giornata sulla spiaggia di Mondello, ci si può godere una sosta alla friggitoria dei Fratelli Testaverde,  in Via Lorenzo Iandolino 8, dove si può assaggiare anche il pane cunzato, altra pietanza tipica locale, un panino farcito con olio extravergine d’oliva, alici sott’olio, un pizzico di pepe e l’immancabile Ragusano.

3 pensieri su “Pani c’a meusa

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