Diario Palermitano – Settimo Giorno

palazzo

Diciamola tutta… Oggi, il bollettino medico è un poco controverso: da una parte, Manu continua a muoversi sempre più, a cambiare posizione e a sgonfiare la gamba, dall’altra, nel pomeriggio, ha avuto un poco di febbricciola.

Il motivo, non si sa: forse dipende dall’assorbimento dell’ematoma o di un eventuale versamento o forse, come temo io, le avrò attaccato pure qualche infezione intestinale. In ogni caso, vai di antibiotico…

Per farmi perdonare del mio essere un possibile untore, questa sera parlerò di uno quei luoghi di Palermo, visitati da mio nonno, ma non dal sottoscritto:palazzo Sclafani. La leggenda racconta come, nel 1130, Matteo Sclafani conte di Adernò e di Ciminna, fosse stato invitato dal cognato Manfredi Chiaramonte conte di Modica,  nonché personaggio  di uno dei tanti romanzi di Evangelisti dedicati a Nicolas Eymerich, ad una festa nel suo sontuoso palazzo del Piano della Marina, il famoso “Hosterium Magnum”, quello che poi diventerà il famigerato Steri, sede palermitana dell’Inquisizione e dei relativi carceri.

Sclafani, vedendo la magnificenza della dimora dei Chiaramonte, rosicò come un dannato e promise al promise al cognato che nel volgere di un solo anno avrebbe eretto un edificio altrettanto maestoso, promessa che, secondo quanto riferisce lo storico Tommaso Fazello, fu puntualmente mantenuta.

E’ ovvio come la realtà fosse ben diversa: pur successivo allo Steri, dai documenti d’archivio, Palazzo Sclafani pare essere stato eretto in sette o otto anni, riutilizzando le mura di una procedente costruzione di epoca araba, a sua volta fondata su un’antica domus romana. Tuttavia vi è nel racconto un riflesso della storica rivalità tra le due famiglie, che degenererà presto in una feroce guerra civile, con i Chiaramonte a capo della fazione latina, indipendentista, e gli Sclafani, nonostante le origini normanne, a capo della catalana.

In origine, come la dimora dei Chiaramonte, palazzo Sclafani aveva la parte basamentale costituita da una robusta massa quatrangolare compatta, senza aperture: infatti gli ambienti del primo ordine ricevevano luce solo dal cortile interno. Tutto per favorire la difesa dai torbidi di quegli anni.

L’edificio, che si sviluppava su tre piani d’uso, era aperto alla luce solo negli ordini superiori dove era circondato da una serie di eleganti finestre “bifore” inghirlandate da grandi arcate intrecciate tra di loro di chiara derivazione normanna, con tarsie bicrome: “quasi a costituire un prezioso diadema di gusto orientale” (Spatrisano). Questa dimora di dimensioni inedite per un palazzo privato dell’epoca, testimonia l’alto livello raggiunto dall’architettura civile del trecento palermitano in chiaro anticipo sui futuri modelli architettonici del centro Italia.

Oggi purtroppo è rimasto quasi invariato solo il suo prospetto meridionale che si affaccia sulla piazza S. Giovanni Decollato, con la facciata rimasta integra, nonostante il rimaneggiamento della zona basamentale eseguito alla fine dell’ottocento, con l’apertura di una moderna finestratura. In questo lato fa bella mostra di sè lo splendido portale gotico su cui, in corrispondenza dell’arco, si trova una leggiadra edicoletta classica dove campeggiano ancora gli stemmi di casa Sclafani (due gru che si affrontano), oltre a quelli della città di Palermo, della Sicilia e del Regno d’Aragona, opera dello scultore Bonaiuto Pisano: ancora più in alto, si trova un’aquila marmorea che tiene fra gli artigli una lepre.

Questo perchè il Palazzo ha avuto una storia tormentata e diversi cambi di destinazione d’uso: alla morte di Matteo Sclafani, avvenuta nel 1354, la sua potente e ricca famiglia si estinse (nonostante tre matrimoni, lo Sclafani non ebbe un erede maschio). Il grande palazzo fu confiscato nel 1400 e assegnato ad una nobile famiglia spagnola, la quale residente in Spagna non si curava delle sorti dell’edificio, che ben presto cadde in rovina. Ma durante il regno di Alfonso d’Aragona “il Magnanimo”, cambia il destino della magnifica dimora che torna a vivere: infatti nella prima metà del XV secolo il palazzo divenne l’ospedale “Grande e Nuovo” della città di Palermo. Nel 1429 il frate benedettino frà Giuliano Majali indirizzava al senato della città una supplica per ottenere il privilegio di fondare un grande ospedale che accorpasse i ventidue ospedali “ pichuli ” e “ malamenti sirvuti ” sparsi per la città. Il 24 aprile dello stesso anno l’arcivescovo di Palermo Martino de Marinis, concedeva il nulla osta alla fondazione dell’ospedale, e il 21 di agosto Re Alfonso d’Aragona accolse la richiesta: un’apposita Commissione designata dal sovrano si incaricò di stilare i relativi “ Capitoli ”. Nel 1435 il palazzo che a quel tempo apparteneva a don Sancio Ruiz de Lihori visconte di Gagliano, venne acquistato dal senato cittadino per la somma di 150 once e concesso all’amministrazione dell’Ospedale Grande e Nuovo: tuttavia dovettero passare altri cinque anni prima che il palazzo, dopo i necessari lavori di adattamento potesse essere adibito a nosocomio.

Lavori che di fatto impattarono molto sull’architettura:nel 1832 dopo i moti, le proteste e tutta una serie di insurrezioni cittadine, l’aggregato fu parzialmente trasformato in caserma. Dopo i disordini provocati dai moti di Palermo del 1848, palazzo Sclafani fu dichiarato bene demaniale, l’amministrazione dell’Ospedale ne mantenne il possesso fino al 1852, quando l’istituzione ospedaliera fu definitivamente trasferita nei locali della casa gesuitica di San Francesco Saverio fino all’8 settembre 1943, allorquando l’intero complesso della compagnia di Gesù fu raso al suolo durante un’incursione aerea nel contesto dei bombardamenti cittadini della seconda guerra mondiale.

Così, essendo sede del Comando Militare, mio nonno, con la scusa di smarcare qualche strana pratica burocratica, lo visitò più volte, a differenza del sottoscritto, troppo pigro per chiedere le relative autorizzazioni. E lui la fortuna di ammirare l’affresco del Trionfo della Morte nella sua sede originale: fu infatti spostato a Palazzo Abatellis, nel 1954, per l’allestimento voluto dal buon Carlo Scarpa.

morte

Trionfo della Morte, realizzato da un artista catalano o borgognone, forse il misterioso e affascinante Guillaume Spicre, altro personaggio da romanzo, e commissionato dai rettori dell’ospedale, che mi ha sempre affascinato, per la sua tensione apocalittica: è una gigantesca pagina miniata, dove in un lussureggiante giardino incantato, bordato da una siepe, irrompe la Morte su uno spettrale cavallo scheletrito, lanciando frecce letali che colpiscono personaggi di tutte le fasce sociali, uccidendoli. Il cavallo, di prorompente vitalità, occupa il centro della scena, con le sue costole e la macabra anatomia della testa scarnificata, che mostra denti e lingua.

In basso si trovano i cadaveri delle persone già uccise: imperatori, papa, antipapa, vescovi, frati (sia francescani che domenicani), poeti, cavalieri e damigelle. Ciascuno è rappresentato individualmente, in una posizione diversa: chi con una smorfia di dolore ancora disegnata sul volto, chi sereno, chi con gli arti scompostamente abbandonati, chi, appena raggiunto da una freccia, nell’atto di accasciarsi.

A sinistra si trova il gruppo della povera gente, che invoca la morte di interrompere le proprie sofferenze, ma viene crudelmente ignorata. Fra questi, la figura in alto che guarda verso l’osservatore è stata proposta come autoritratto dell’autore.

A destra si trova il gruppo degli aristocratici, disinteressati all’avvenimento, che imperterriti continuano le loro attività, tranne i personaggi immediatamente più vicini ai cadaveri. Vi si riconoscono diversi musici, dame riccamente abbigliate e cavalieri vestiti di pellicce, come quelli che chiacchierano amabilmente ai bordi della fontana, simbolo di vita e di giovinezza. Qui e più in alto, a sinistra, si trovano due richiami a uno degli svaghi più amati dall’aristocrazia, la caccia, con un uomo che tiene un falcone sul braccio e un altro che regge al guinzaglio due cani da caccia trepidanti, tra i quali il levriero disegna una linea sinuosa col corpo sull’attenti. Molti lo vedono come immagine del menefreghismo… Io invece, mi diverto a pensare come sia una Metafora dell’Arte, che con le sue opere, sfida il Nulla e la Commare Secca.

Per farvi fare una risata, il mio impatto con quest’opera è stato prima virtuale, che reale… Un amico cinefilo a tradimento mi portò a vedere Palermo Shooting di Wim Wenders, film che ha proprio in quell’affresco il filo conduttore della narrazione: pur rischiando di cadere addormentato più e più volte, si sa, sono un uomo dai gusti semplici, rimasi affascinato sia dall’opera, sia da Palermo, ignaro che poco dopo avrei conosciuto mia moglie, che avrebbe reso Balarm una parte importante della mia vita.

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