Michelangelo, dopo avere avuto l’approvazione papale per il Mausoleo e abbastanza convinto del progetto dell’edificio di Sangallo, partì pieno di entusiasmo, alla volta delle cave di Carrara, dove desiderava scegliere personalmente ogni singolo blocco di marmo da impiegare, lavoro che richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505.
Secondo il fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa, che potesse guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della personalità dell’artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del biografo, anche per l’esistenza di un’edizione del manoscritto con note appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l’opera è definita “una pazzia”, ma che l’artista avrebbe realizzato se avesse potuto vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio, avrebbe voluto modellare nel Monte Athos.
Tornato però a Roma, Michelangelo si trovò davanti una pessima sorpresa: Giulio II aveva cambiato idea sul progetto suo e di Sangallo, rimandato alle calende greche. Condivi e Vasari, per una volta sono concordi su una cosa: dare la colpa di tutti a Bramante.
Accusa, assai probabilmente infondate: per dirla tutta, a Donato, la storia del Mausoleo faceva solo che comodo, dato che lo liberava dalla necessità di dovere tenere conto, nella costruzione della sua San Pietro, di quell’incubo che era diventato il coro del Rossellino.
Poi, diciamola tutta, Bramante, che non aveva mai strozzato i colleghi dal pessimo carattere, come Solari e lo stesso Giuliano da Sangallo, con cui era costretto a collaborare dalle paturnie dei committenti, non era il genere di persona che gode nel metterei bastoni tra le ruote all’altro. Lo stesso Vasari, nella biografia che gli aveva dedicato, così descrive il suo carattere
Fu Bramante persona molto allegra e piacevole, e si dilettò sempre di giovare a’ prossimi suoi. Fu amicissimo delle persone ingegnose e favorevole a quelle in ciò che e’ poteva; come si vede che egli fece al grazioso Raffaello Sanzio da Urbino, pittor celebratissimo, che da lui fu condotto a Roma. Sempre splendidissimamente si onorò e visse, et al grado, dove i meriti della sua vita l’avevano posto, era niente quel che aveva a petto a quello che egli avrebbe speso. Dilettavasi de la poesia, e volentieri udiva e diceva in proviso in su la lira, e componeva qualche sonetto, se non così delicato come si usa ora, grave almeno e senza difetti. Fu grandemente stimato dai prelati e presentato da infiniti signori che lo conobbero
Ma allora, cosa diavolo era successo? Per prima cosa, si era fatto i conti in tasca. L’edificio concepito da Giuliano da Sangallo, pur essendo bello, nobile e maestoso, aveva i suoi costi. In più Michelangelo, il quale aveva un rapporto patologico con il denaro, a Carrara stava caricando senza ritengo e dignità le sue note spese, facendone abbondantemente la cresta.
A fronte di questo esborso, c’era il famigerato coro del Rossellino, completato sino a una decina di metri d’altezza: per cui, piuttosto che impegnarsi in cantiere parallelo, Giulio II si cominciò a interrogare sul fatto se fosse stato più conveniente concludere l’opera quattrocentesca, ovviamente modernizzata, trasformandola nella cosiddetta Cappella Giulia, e piazzarsi un tradizionale sepolcro a parete, simile a quello realizzato da Antonio del Pollaiolo per Innocenzo VIII, magari scolpito dallo stesso Michelangelo.
Poi, il Papa doveva affrontare la pressione del suo parentado, che lo accusava, con il progetto del Mausoleo, di avere violato la tradizione di famiglia e deluso le aspettative: essendo stato il coro della Basilica dei Santi Apostoli era stato riempito di tombe a pareti di Della Rovere e dei Riario, si aspettavano la stessa cosa anche nella nuova San Pietro…
Infine, c’era un problema architettonico, che nessuno dei tre protagonisti, Bramante, Sangallo e Michelangelo, si era posto. Però prima di introdurlo, una piccola premessa, da tenere in mente anche nei post successivi sul cantiere di San Pietro.
Secondo Vasari, Bramante, dovendo stare dietro alle paturnie di Giulio II, produsse una quantità industriale di disegni e progetti architettonici. Purtroppo, ne sono rimasti solo quattro: si tratta dei numeri 1A, 8Av, 20A e 7945A della collezione degli Uffizi. Per cui, molti degli aspetti del processo progettuale ci sono rimasti ignoti e possono essere ricostruiti solo per via induttiva o per testimonianza indiretta.
Questo vale anche per il cosiddetto Progetto 0, la prima soluzione che Bramante presentò per San Pietro. Secondo un passo della Historia viginti saeculorum di Egidio da Viterbo, Donato propose in un primo momento un edificio a pianta centrale, probabilmente molto simile alla chiesa paleocristiana di San Lorenzo, con l’ingresso rivolto verso meridione, in asse con l’obelisco vaticano e con il probabile luogo destinato al Mausoleo di Michelangelo e Sangallo, la cui superficie copriva quella della vecchia navata costantiniana.
In questo modo, non si sarebbe dovuto tenere conto del coro del Rossellino il sacrario della basilica sarebbe rimasto intatto durante i lavori di costruzione; dopodiché, si sarebbe potuto trasferire l’altare principale nel tempio nuovo.
Idea a prima vista sensata e razionale, ma che non teneva conto di una questione: la necessità di spostare la tomba di San Pietro, per porla sotto all’altare della nuova chiesa. Appena Giulio II se ne rese conto, rischiò un coccolone e mise il veto al Progetto 0, intimando a Bramante di elaborare un progetto adatto all’area del sacrario vecchio, impicciandosi nella topografia tanto intricata del luogo, riprendendo le dimensioni dell’edificio costantiniano e integrato con il suddetto coro quattrocentesco, che dato che c’era, in qualche modo doveva essere utilizzato.
Per cui, Donato fu costretto a impegnarsi nell’effettuare. il rilievo della pianta della basilica e delle fondamenta di Nicolò V, prima di elaborare una nuova proposta. Ora, Giulio II dovette anche impegnarsi a trovare una nuova collocazione ai due disoccupati, Sangallo e Michelangelo.
Il primo fu collocato, con un ricco stipendio, come secondo architetto di San Pietro, dando così il via a una complessa e a volte tempestosa collaborazione con Bramante. Ben più complessa, dato il suo caratteraccio, fu la questione con Michelangelo.
Appena saputo della sola ricevuta, il fiorentino chiese invano un’udienza chiarificatrice a Giulio II per avere la conferma della commissione ma, essendo il Papa in tutt’altre faccende affaccendato, l’artista non riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato, era anche un poco paranoico, scrisse
s’i’ stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa
fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Michelangelo Rintanato nell’amata e protettiva Firenze, riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci vollero ben tre brevi del papa inviate alla Signoria di Firenze e le continue insistenze del gonfaloniere Pier Soderini
Noi non vogliamo per te far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico
Per non sentire Soderini, Michelangelo, racconta sempre Condivi
pensò d’andarsene in Levante, massimamente essendo stato dal Turco ricercato, con grandissime promesse, per mezzo di certi frati di San Francesco, per volersene servire in far un ponte da Costantinopoli a Pera, et in altri affari. Ma cio sentendo il Gonfaloniere, mandò per lui, et lo distolse da tal pensiero, dicendo che piuttosto eleggerebbe di morire andando al Papa, che vivere andando al Turco: non dimeno che di cio non dovesse temere, percioche il Papa era benigno et lo richiamava, per che gli voleva bene, non per fargli dispaicere. Et se pur temeva, che la Signoria lo mandarebbe con titolo d’Ambasciatore, per cioche à le persone publiche non si suol far violenza, che non si faccia à che gli manda
Dinanzi a tali parole, Michelangelo si decise a prendere in considerazione l’ipotesi della riconciliazione con Giulio II. L’occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui l’artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 in un incontro così raccontato da Condivi
Giunto a’dunque una mattina in Bologna, et andando a San Petronio per udir messa, eccoti i Palafrenieri del Papa, iquali riconoscendolo lo condussero inanzi à sua Santità, che era à tavola, nel palazzo de’sedici.
Il quale poi che in sua presenza lo vidde, con volto sdegnato gli disse. Tu havevi a venire a trovar noi, et hai aspettato che noi vegniamo a trovar te. Volendo intendere, che essendo sua Santità venuta a Bologna, luogo molto piu vicino a Fiorenza che non è Roma, era come venuto a trovar lui. Michelagnolo inginocchiato, ad alta voce gli domandò perdono, scusandosi di non havere errato per malignità, ma per isdegno, non havendo potuto sopportare d’essere cosi cacciato: come fu. Stavasene il Papa a capo basso, senza risponder nulla, tutto nel sembiante turbato, quando un Monsignore, mandato dal Cardinal Soderini per iscusare et racommandar Michelagnolo, si volse interporre, et disse, vostra Santità non guardi al error suo, percioche ha errato per ignoranza. I dipintori, dal arte loro in fuore, son tutti cosi. A cui il Papa sdegnato rispose. Tu gli di villania, che non diciamo noi. Lo’gnorante sei tu e lo sciagurato non egli. Lievamiti dinanzi in tua mal’hora. Et non andando, fu da servitori del Papa, con matti frugoni (come suol dir Michelagnolo) spinto furore. Cosi il Papa havendo il più della sua collera sborrata sopra il vescovo, chiamato più a costo Michelagnolo, gli perdonò, et gli commesse che di Bologna non partissse, fin ch’altra commesssione da lui non gli fusse data.
Così Michelangelo ottenne l’incarico di fondere una scultura in bronzo che rappresentasse Giulio II a figura intera, seduto e in grande dimensione, da collocare al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella facciata della basilica civica di San Petronio.
L’artista si fermò quindi a Bologna per il tempo necessario all’impresa, circa due anni. A luglio 1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l’opera venne scoperta e installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l’espressione del papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro temporaneo dei Bentivoglio. I rottami, quasi cinque tonnellate di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso d’Este, rivale del papa, che li fuse in una bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era conservata in un armadio. Una parvenza di come doveva apparire questo bronzo michelangiolesco possiamo averla osservando la scultura di Gregorio XIII, ancora oggi conservata sul portale del vicino Palazzo Comunale, forgiata da Alessandro Menganti nel 1580.
I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il caratteraccio di entrambi. A marzo del 1508 l’artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell’aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però una breve papale lo raggiunge ingiungendogli di presentarsi di corsa Roma
Subito Giulio II decise di occupare l’artista con una nuova, prestigiosa impresa, la ridecorazione della volta della Cappella Sistina A causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta. Ma questa è un’altra storia…
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